Fondatore del tour operator Il Mio Viaggio a New York e frontman delle relative, seguitissime pagine social, Piero Armenti ha dato voce all’american dream, un concetto ancora oggi molto forte tra tantissimi italiani. Il suo utilizzo delle reti sociali è un vero è proprio case history e, anche per questo, abbiamo voluto raccogliere la sua testimonianza.
Piero, probabilmente in questo momento, nel 2022, sei l’italiano più famoso che vive negli Stati Uniti? Possiamo dire così?
C’è anche Del Piero a Los Angeles, dai.
Forse però Alex ha perso appeal proprio trasferendosi negli States, tu invece al contrario hai trovato notorietà proprio stando su suolo americano, no?
Esatto!
Osservando il tuo percorso, ciò che ci appare chiaro è che, al contrario di quello che fanno molti “influencer” – uso questa parola per semplicità anche se non mi piace – prima hai creato il modello di business e poi ti sei posizionato sfruttando l’online. Ti ritrovi in questa lettura?
Ma infatti anche io odio definirmi influencer. Diciamo che io ho visto nei social media semplicemente uno strumento col quale creare una community, avendo chiaro sin da subito che quest’ultima sarebbe dovuta essere orientata verso un business. In particolare, ho compreso subito che c’era questa sorta di vuoto turistico a New York. Per chi non lo sapesse, la mia è ormai l’agenzia turistica leader a New York, con la sede a Times Square, dalla quale offriamo diversi servizi e tour, avendo raggiunto per certi versi quasi un monopolio. E avevo percepito l’esistenza di tale vuoto attraverso un dato empirico, di esperienza: la gente mi chiedeva continuamente consigli su questa città.
Quindi in piena coerenza con quello che è uno dei mantra delle companies californiane: “Trova un problema e risolvilo”. Quindi qual era, in particolare, il problema da te individuato?
È stato proprio così! Il problema consisteva nel fatto che la gente arrivasse a New York avendo in testa una confusione pazzesca e assoluta su cosa fare, dove andare, quali siti visitare, cosa mangiare, quale hotel scegliere. Aveva perciò bisogno di una persona di fiducia – e i social sono stati importantissimi da questo punto di vista perché mi hanno reso familiare alle persone – una voce amica, dunque, che ti aiuta dicendoti cosa fare e vedere e ti guida nell’organizzazione della permanenza, rendendola quanto più piacevole e bella possibile. E la cosa mi fu chiara già ai tempi del mio primo tour organizzato, quello delle terrazze panoramiche – non so se siete stati in qualche rooftop a vedere la città illuminata di notte, una visione molto cinematografica – che io sponsorizzai e promossi con la diffusione appunto delle immagini e degli scenari godibili dalle terrazze. E chi non avrebbe piacere a vivere un’esperienza così? Solo che non sai come andarci, non sai come fare ad avere un accesso. E facendo leva su questo, siamo arrivati anche a un record di 166 persone in un solo tour dei rooftop, 4 pullman pieni.
Quindi il prodotto di front-end, quello che ha creato la differenziazione, è stato per te il tour dei rooftop?
Sì, perché è stato il primo nel suo genere in tutta New York e lo abbiamo offerto a tutti, non solo agli italiani, tant’è che ha conquistato una sua notorietà anche presso il pubblico britannico, fra i tedeschi, i sudamericani, eccetera.
Questo ci porta a un’altra domanda che volevamo farti. L’internazionalizzazione è stata per te un processo naturale, oppure ti sei creato una nuova audience? Sei partito subito con l’idea delle due lingue?
Assolutamente, io sono partito quasi subito con le due lingue, italiano e spagnolo, perché gli ispanofoni sono una comunità molto vasta e che ama visitare New York, tra latino-americani, spagnoli europei e latino-americani che vivono stabilmente negli Stati Uniti.
Domanda per dare una dimensione economica cruda al tuo sogno americano: qual è stato il fatturato nel primo anno de Il Mio Viaggio a New York? E quale, invece, quello nell’ultimo anno prima che la pandemia scombinasse un po’ tutto?
Il mio primo fatturato che ricordo ancora, anche perché è legato al pagamento delle prime tasse, è stato di 86.000 $ che, comunque, non mi dispiacque perché iniziai lavorando da solo, senza dipendenti o collaboratori. Nell’ultimo anno pre-Covid, eravamo arrivati a cifre che si aggiravano intorno ai 3 milioni.
Qual è stato secondo te il passo o l’elemento che ha fatto decollare il tuo business?
L’apertura dell’ufficio a Times Square, perché quello è stato un elemento di riconoscibilità importante e la gente ha iniziato anche ad acquistare di più perché ha iniziato a fidarsi di più. Ho proprio in mente quest’immagine dei visitatori che, appena arrivano a New York, non passano neanche dall’hotel, ma si fanno subito portare in agenzia anche con le valigie.
Hai avuto l’intuizione o forse la consapevolezza, quindi, dell’importanza che risiede nel portare anche un business nato prevalentemente online verso l’offline, scegliendo di radicarlo fisicamente proprio come obiettivo di marketing.
Esattamente, penso quello sia stato il “tocco geniale”, il guardare a quell’ufficio, sulla 47esima, tra l’Ottava e la Nona, come nient’altro che una importantissima spesa di marketing.
E poi, a un certo punto, hai scelto di aprire una nuova azienda e lanciarti in una seconda avventura online, Jerry America. Raccontaci di più.
Avevo notato che, al ritorno, i turisti italiani portavano con sé valigie piene di snack americani e allora abbiamo deciso di portarglieli direttamente noi a casa, con un eCommerce, quello appunto di Jerry America. Anche su quel fronte, però, abbiamo un progetto di espansione fisica e di ritorno all’offline, tramite delle bakery e dei fondi di investimento.
Come molti di noi, tu Piero, sei laureato in qualcosa che c’entra poco e niente col lavoro che fai, perché tu hai conseguito una laurea in giurisprudenza, giusto?
Sì, sì e ho anche un dottorato in Lingue e Letterature Straniere.
Beh dai quello quasi c’entra con la tua attuale professione. Volevo però chiederti quali soft skill hai dovuto ampliare nel corso degli anni?
Rispetto all’esperienza universitaria, mi mancava praticamente tutto. La cosa più importante è riuscire a calarsi nella mentalità del luogo.
Guardando alla tua realtà, verrebbe da dire che tu e i tuoi collaboratori avete seguito alla perfezione ciò che noi spesso cerchiamo di professare presso i nostri clienti. Partendo dal presupposto che ogni organizzazione esiste perché risolve un problema, bisogna coprire tutti i canali possibili per fare in modo che, dato che il primo motore di ricerca al mondo è Google, ma il secondo è forse Amazon e poi YouTube, e poi le piattaforme musicali e podcast, ecc., chiunque sta cercando una soluzione a quel determinato problema trova voi.
Che è quello che hai fatto tu con i contenuti social, prima, e ora anche con i libri. Giusto?
Al 100% giusto, hai centrato proprio quella che è la mia strategia e che spesso non viene compresa fino in fondo, tant’è che molti ancora non hanno capito che lavoro faccio. Però è più semplice di quel che sembra e io la spiego sempre in due parole: io volevo attivare il passaparola ed è a questo che mi servono tutti i canali e punti di contatto. Se vai in libreria e cerchi una guida, c’è la mia. Se cerchi un romanzo su New York, ci sono anche i miei. Se tu stai organizzando un viaggio a New York, ne parlerai sicuramente, preso dall’entusiasmo, almeno a una decina di persone. E tra quelle, almeno 2-3 conosceranno e consiglieranno Il Mio Viaggio a New York. Chiunque venga in viaggio da noi è costretto a confrontarsi con l’esistenza della mia agenzia, questa è stata la sfida più grande, creare una sorta di monopolio nell’immaginario dei miei clienti, italiani e non solo.
L’ultimo romanzo che hai scritto, Se ami New York, è il prosieguo del precedente, niente di autobiografico, vero?
In senso assoluto no, ma chiaramente gli spunti aneddotici hanno sempre un riferimento al vissuto e quindi all’autobiografico. Il protagonista del romanzo è lo stesso del precedente, l’ambientazione temporale è a 10 anni dopo il primo della serie e, anche in questo caso, ci si ritrova davanti a un dilemma: scegliere tra New York e l’amore.
Quello che si apprezza in particolar modo del romanzo, dal nostro punto di vista chiaramente, è che non è nulla di aulico. Con un linguaggio semplice, chiaro e un’impostazione molto americana di storytelling puro, tutto è scritto in ottica marketing e punta alle conversioni per Il Mio Viaggio a New York.
Sì, è corretto dirlo, mi aiuta molto scrivere in prima persona, anche se sto pensando anche di sperimentare un po’ il distacco della stesura in terza persona alla prossima occasione per raccontare la città in una maniera e un tono maggiormente letterari…
Piero, hai un’idea e una definizione personale di reputazione?
Io credo che ciò su cui si fonda la reputazione di una persona è la consistenza con cui si fa un qualcosa e lo si fa bene, dedicandosi a tale attività in maniera assoluta. Credo che quel cliente che torna in Italia e racconta di te, parlando bene della persona che sei e dei tuoi tour, sia il risultato da raggiungere avendo un team tutto focalizzato sulla costruzione di questo sogno newyorkese.
Concludendo, quali consigli daresti a chi sta pensando di raggiungere gli Stati Uniti e a provare a trasferirsi nel Paese a stelle e strisce?
Il mio primo consiglio è venire innanzitutto a sperimentare, anche solo per 3 mesi o 6 mesi, capire se ci piace e se è nelle nostre corde il trasferimento negli States. Il secondo consiglio è comprendere al meglio se la cosa che ci appassiona di più e in cui eccelliamo può avere mercato negli Stati Uniti. Un terzo consiglio è quello di trovarsi, per iniziare, un socio accomunato dalla nostra stessa passione. In tutto questo, sono convinto, sulla base della mia esperienza negli ultimi 10 anni, che, in questo Paese, se sei persistente e segui in maniera puntuale questi consigli, avrai sicuramente successo.