Orvietana di nascita, classe 1984, Verdiana Patacchini è un’artista protagonista di un percorso personale di ricerca materica. Ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 2011 e ha poi ottenuto una residenza artistica negli Stati Uniti. L’abbiamo incontrata per farci raccontare l’evoluzione della sua arte a contatto con il sogno americano.
Verdiana, quando sei arrivata qui negli States?
Sono arrivata qui nel 2008, poi ho fatto un po’ avanti e indietro. Nel 2015 ho preso la residenza dove ho lo studio che mi era stato assegnato per tre mesi, poi prorogato per altri tre mesi. Per lavorare avevo il materiale gratis da una fondazione; ero una residente artistica. La fondazione colleziona opere, ne viene scelta una di ciascun artista per ogni fine di residenza, e poi vengono scelti gli artisti da invitare lì.
In che modo sei stata selezionata?
Tramite application, ma diciamo che per gli artisti la parola “residenza” è una cosa molto comune, perché è ciò che agevola tutto. Si applica sempre per queste residenze, al fine di avere uno studio in cambio. A New York è pieno di residenze più o meno importanti e istituzionali, perché danno ai giovani la possibilità di avere uno studio in una città così cara, e lavorare. Poi, solitamente, sono esperienze che fanno curriculum, poiché avviene tutto tramite selezione e fanno crescere come artisti.
Qui l’imprenditore, oltre a essere appassionato d’arte e milionario, ha anche delle agevolazioni?
Qui chi acquista arte, al contrario di quel che succede in Italia, non è perseguito dalla legge per capire da dove provengano i soldi dell’acquisto. Anzi, si scaricano le tasse comprando opere d’arte. Addirittura per gli acquisti in occasione di aste di beneficenza, si scarica il 100%.
Tu hai partecipato alla Biennale di Venezia, questo ti ha aiutata dopo con l’application?
La Biennale era nel 2011, e questo mi ha permesso in maniera più facile di ottenere il visto, perché io sono venuta qua con un visto da artista che avevo già preso prima della residenza, ma non lo stavo sfruttando perché non avevo deciso di trasferirmi. Con quest’opportunità ho capito di poter avere uno studio e la capacità di gestire le mie giornate come facevo in Italia. Io avevo iniziato già a viaggiare e a fare avanti e indietro, e sapevo che era difficilissimo continuare a viaggiare senza visto. Avevo paura che prima o poi mi bloccassero… Ero stata spaventata da alcuni racconti. Mi sono informata per il visto da artista e per fare l’application. Non è una cosa facile, ci vuole l’aiuto di un avvocato, però con la Biennale di Venezia mi è stato dato subito perché è di livello internazionale, quindi per me è stato molto vantaggioso. Il visto da artista fa parte dei visti speciali che possono avere medici, sportivi, musicisti, scrittori, CEO… La cosa buona è che a partire da un certo momento, puoi auto-sponsorizzarti per la green card, che ho preso dopo. Insomma, sotto questo punto di vista ormai sono a posto.
Hai scelto di venire in un Paese che considera l’arte un business…
Qui l’arte è riconosciuta come business, ma diciamo che secondo me qui si parte in maniera diversa, proprio perché è diverso l’approccio all’arte negli studi. Chi studia arte all’università fa un grande investimento per la vita, considerando il costo, ma già in quegli anni ti viene inculcato un business plan. L’approccio è diverso; è di creare il tuo statement.
In Italia non c’è un approccio business nella formazione artistica?
Per la mia esperienza, no. Adesso non so se son cambiate le cose. C’è un rapporto molto vicino a quel che è il disegno, la formazione stilistica, la tecnica. Qui, magari, questo non c’è. Per i primi due o tre anni si lavora sulla teoria, sullo statement, sul tuo punto di vista nell’arte e su come lo racconti. Gli americani sono bravissimi a raccontare e descrivere il loro lavoro, con i talk, con gli speech, e questo lo imparano già nel percorso di studi. Dopodiché, quando hai ben presente il tuo stile e il tuo statement è solido, inizi a creare e con l’università fai le prime mostre. Sono università di prestigio, quindi invitano curatori importanti e sei già dentro quell’ambito. Poi vengono dati tanti consigli su cosa fare, ad esempio alle cinque si esce dallo studio e si stacca da lavoro per fare networking, andare alle mostre, far conoscere la propria faccia… E “a far finta finché non ci riesci veramente”!
Sei arrivata qui che non avevi un tuo stile?
Diciamo che l’ho cambiato. Prima ero molto più materica; tutto quel che facevo in Italia era molto legato a ferro, polistirolo bruciato, acidi… Qui ho dovuto alleggerirmi. A Roma avevo tutto quel che entrava in una Cinquecento, invece qui non avevo lo studio all’inizio, né il magazzino, e ho iniziato a lavorare sulle tele di lino senza preparazione, in modo tale da poterle arrotolare e metterle dove volevo. Tutto quel che facevo prima non era “arrotolabile”, poi ho ricominciato a lavorare sulla tela come facevo prima, per una questione di comodità. Viaggiavo, non sapevo qual era la mia casa, quindi ho cambiato. Poi diciamo che prima facevo delle cose più massicce; avendo abbandonato quella fase ho iniziato con la ceramica.
Qual è la cosa che ha più mercato in generale?
I quadri sono sempre un grande classico… La ceramica è molto amata, ho fatto una serie di busti in ceramica, molti dei quali rimasti in Italia. Dipende però, perché anche la ceramica ha avuto un grande ciclo.
Hai cambiato il tuo modo di approcciarti, perché?
Per necessità ma anche per crescita. Sicuramente a New York si hanno degli stimoli diversi; ogni settimana, anche tre volte, vai a queste mostre, conosci personaggi, grandissimi artisti.
Fra artisti si crea un network?
Sì, quando vivevo in Italia ero più isolata. Qui si crea perché serve, e nel caso va creato, perché è una comunità che può aiutarsi, anche per mettere insieme delle mostre. Un artista è anche onesto col proprio lavoro… Se non si rientra in un certo gusto per una logica di una mostra, son cose che vanno da sé. Quindi ci sono tanti stimoli, si impara, poi qui esci, si va insieme a vedere una mostra…
Dopo aver iniziato a produrre dovevi anche iniziare a vendere le opere?
Sto ancora imparando tanto. C’è tanto da scoprire; per esempio io ho avuto visite importanti in studio. È stato scioccante quando Jeffrey Deitch è venuto a vedere le mie opere, un gallerista tra i più importanti al mondo. Mi ha fatto dei complimenti che non so se fossero veri o meno, ma percepì molto il mio essere italiana. C’è un gusto italiano-europeo diverso da quello americano; quest’ultimo lo sanno vendere e difendere. Sono pochi i casi di artisti europei considerati veramente internazionali, “americanizzati”. C’è una struttura molto forte del mondo dell’arte, che funziona benissimo. Questa pandemia ha distrutto tantissimi business. Il mondo dell’arte ad alto livello non è stato toccato; anzi, le aste sono andate benissimo, con record di ricavi per tanti artisti, in quanto le opere sono considerate beni di lusso e sicuri, dei veri e propri investimenti. Io cercavo di andare sempre alle aste, ed è una scoperta enorme di artisti e prezzi di vendita, quindi consiglio a chi inizia a New York nel mondo dell’arte, sia da artista che da collezionista, di andare alle aste. È un mondo incredibile, divertentissimo, sbalorditivo.
Quando hai partecipato alla tua prima mostra qui negli Usa?
La personale che ho avuto era al consolato italiano, quindi istituzionale, poi ho fatto delle mostre collettive. Mi serve ancora una galleria americana alla quale spero di arrivare.
E la prima mostra collettiva quando è stata?
Prima che mi stabilissi qua; a New London, fuori New York. Era la galleria che mi aveva sponsorizzato il visto.
Quando hai iniziato a vedere che eri guardata in modo diverso per la tua professione? Com’è cambiata la tua percezione?
Piuttosto mi domando come ho imparato a guardarla io in modo diverso. Se tu persegui questo sogno, qui vedi da vicino quanto devi crederci. Non so quanto gli altri abbiano creduto in me o quando abbiano iniziato, ma è una questione di mentalità. Per me ha avuto più senso questo, piuttosto che il contrario.
Come funziona una tua giornata tipo? Hai un tuo schema mentale di produzione?
Prima della pandemia ero molto mondana, dopo esser stata in studio andavo alle mostre. Non ho schemi; sono una persona poco organizzata. La prima ora vengo in studio e mi guardo intorno, è come fare riscaldamento, poi io per esempio non inizio mai un quadro, ma un paio almeno insieme, in modo tale che se mi blocco con uno vado con un altro, mi prendo delle pause dal quadro e quindi vado di qua, di là. A volte è meglio star fermi.
Hai mostre in programma?
Ne ho una a Roma in galleria con degli oggetti di ceramica che sto “esplorando” da circa un anno. Da poco ho anche fatto delle commissioni in ceramica, però le ho cotte a Saratoga perché nello Stato di New York non sono permessi questi forni a gas che mi servivano. Poi farò una mostra fra agosto e settembre a Presicce, in provincia di Lecce, e ci saranno alcuni quadri e delle ceramiche; oggetti che voglio inserire.
Quando capisci che è finito un quadro?
A un certo punto capisci che l’equilibrio si tiene su da solo, è una questione di peso. Quando non ti disturbano più certi elementi… Tutti abbiamo dei quadri vecchi in studio, che magari potevano andar bene ma ci hai messo mano quando non avresti dovuto. Non lo sai mai quando è finito.
Come vedi il tuo futuro?
Sicuramente mi piacerebbe ancora fare questo mestiere, quindi vuol dire che le cose sono andate bene… L’obiettivo è avere più successo, ma anche tornare in Italia mi piacerebbe. Abbiamo il Paese più bello del mondo. Qua è bello imparare, vivere quest’energia che New York sprigiona; l’esperienza è bella così com’è bello viverci per dieci o vent’anni, ho anche una bambina nata qui… Però poi l’Italia mi rimane un po’ nel cuore. Pensi che sei grande, che vuoi avvicinarti alla famiglia.
Come ci si costruisce una reputazione qui negli Usa nel campo dell’arte, rispetto all’Italia?
Fare questi mestieri significa attrarre una cerchia di visibilità. Fai una mostra, la gente viene e sei un pochino più esposto rispetto a chi non ne ha bisogno, per via di lavori di altra natura, così come sui social. Io poi non sono brava su Instagram; ma devi un po’ metterci la faccia, ormai, in un lavoro come questo. Quindi più o meno è la stessa cosa dell’Italia, ma qui è tutto più amplificato.