Il Novecento ha lasciato in eredità agli italiani un nuovo senso di appartenenza alla propria comunità d’origine. È successo così ai tanti italoamericani di prima generazione che, spostandosi Oltreoceano, non hanno mai smesso di ricercare il calore tipico della Penisola, con tutte le sue contraddizioni ed eccellenze che fanno dell’Italia un brand unico nel mondo. La ricerca di sé stessi, però, ha bisogno di punti di riferimento nelle varie sfere d’influenza pubbliche e private, ed è fondamentale avere la possibilità di confrontarsi ogni giorno con un volto amico come quello di Monica Marangoni, giornalista Rai impegnata dal 2018 nella conduzione de L’Italia con voi; la trasmissione dedicata agli italiani nel mondo. Abbiamo scelto di raccogliere la sua testimonianza sul rapporto che le comunità di italiani all’estero hanno costruito con le altre popolazioni in questi secoli di grandi migrazioni, con particolare attenzione alla comunità italoamericana.
Gli italiani all’estero ti vedono sempre più come un volto in grado di rappresentarli, ma come definisci il tuo rapporto con questa comunità?
Dal 2018 ho avuto la grandissima fortuna di condurre il daily time per gli italiani all’estero, che va in onda dal lunedì al venerdì, e ciò ha portato a un rapporto intimo con tutti i telespettatori, che sono in oltre 20 milioni di case e che seguono Rai Italia e il mio programma perché hanno bisogno di mantenere un contatto con il loro Paese, con la loro cultura e con quello che succede in Italia al di là delle notizie del telegiornale. Il legame si è consolidato e il pubblico degli italiani all’estero è molto affettuoso e si fidelizza: mi scrivono tantissime persone per chiedermi dei consigli o se posso promuovere qualche iniziativa. Insomma, ho avuto una fortuna immensa a raccogliere questo tipo di pubblico che adesso è diventato una grande famiglia di cui mi sento parte e in cui ricopro il ruolo fondamentale di promotrice della nostra cultura a trecentosessanta gradi.
La comunità italoamericana è da sempre bersaglio di stereotipi tendenzialmente negativi, eppure il rapporto di Iarl realizzato insieme a Zwan vede un aumento del capitale reputazionale degli italoamericani. Che ne pensi?
È vero, e aggiungerei non solo della reputazione degli italiani all’estero, ma anche degli italiani che vivono in Italia. Ci tengo sempre a dire che non c’è un popolo italiano di serie A e di serie B, perché fino a qualche tempo fa purtroppo i nostri connazionali che vivono fuori dai confini si sentivano di serie B, venivano poco inseriti e considerati anche da noi italiani. Oggi, per fortuna, non è più così. Sicuramente, si segue ancora l’ideale di trovare una terra promessa, delle opportunità che soprattutto per i giovani in Italia sono poche e poco soddisfacenti per il percorso professionale, di studio e formazione che si intraprende. Sempre di più i ragazzi cercano almeno un’esperienza fuori, anche perché rimanere all’interno dei confini nazionali li rende meno competitivi, anche solamente per quanto riguarda la lingua. Magari, perché no, poi tornare a casa e riportare quell’esperienza da noi in Italia per far sì che il nostro Paese ritorni a rappresentare la terra promessa di altri, noi dobbiamo tornare a sentirci orgogliosi di essere italiani, dentro o fuori i confini nazionali.
Quindi riconosci una crescita reputazionale non solamente della comunità italoamericana, ma della comunità italiana nel mondo.
È soprattutto questo il punto. Il flusso oggi non deve essere unilaterale ma bilaterale: un vero e proprio scambio possibile anche grazie alle nuove tecnologie. In un mondo globalizzato dove ormai siamo tutti interconnessi, possiamo avere l’opportunità di scambiarci informazioni ed esperienze per migliorarci. Non deve esserci competizione “fuori e dentro” e mi auguro che questa comunità di italiani che vuole cercare nuove opportunità all’estero, possa comunque mantenere non solo un legame con l’Italia, ma rinforzare la nostra reputazione altrove.
Prima che si realizzi questa sorta di “Italian dream”, però, bisogna vedere se esiste ancora un “American dream”. Che aria tira adesso a proposito di “sogni”?
Io ho potuto toccare con mano anche personalmente con grande gioia il sogno, perché l’America effettivamente è un Paese in cui se vali vai avanti; c’è meritocrazia. Esiste un merito, mentre in Italia si fa molta fatica. Purtroppo lo sappiamo, soprattutto in certi ambienti: non sempre la bravura basta, anzi, a volte la bravura “fa paura”, tendono non tanto a scartarti quanto a insabbiarti. Negli Usa ho avuto delle opportunità che in Italia mai nessuno mi ha dato. Capisco che esista ancora questa voglia di ricercare il sogno negli States, perché lì è più semplice: si può.
In USA la reputazione ha lo stesso peso che ha da noi?
L’America è una società dell’apparenza ancor più dell’Italia e del resto del mondo, che adesso è tutto assuefatto dai social e dall’immagine. Nella società dell’apparenza la reputazione è tutto, e si rischia molto quando qualcosa viene diffuso dai media ma veicolato in maniera sbagliata, e questo forse è il lato più negativo che io ho sempre visto.
E cos’è per te la reputazione?
Se per reputazione si intende la verità di una persona, trovo che sia fondamentale nel lavoro come nella vita privata. Purtroppo, spesso non è così perché la reputazione viene rovinata anche da fake news ed episodi che dovrebbero rimanere privati e che, invece, poi vengono dati alla mercé di tutti con gravissime conseguenze. Solo noi possiamo sapere ciò che siamo e quanto valiamo, quindi mai lasciarsi definire dal giudizio altrui se questo è “la reputazione”. Se la reputazione effettivamente vuole definire l’essenza, l’anima di una persona, allora ritengo sia fondamentale.
Cosa consiglieresti a chi volesse intraprendere una carriera in USA?
Secondo me basta tanta voglia di farcela, determinazione e spirito di sacrificio. Se hai queste tre caratteristiche, in America ce la puoi fare.