Nato a Empoli e cresciuto tra Gambassi Terme e la Val d’Elsa, Nicola Fedeli entra in cucina a quindici anni, formandosi nelle brigate toscane e poi in ristoranti stellati come Il Vicario a Certaldo Alto, Ristorante La Torre del Castello del Nero e Belmond Castello di Casole. Dopo esperienze tra Italia, Nord Europa e Brasile, nel luglio 2021 viene scelto come Executive Chef del ristorante Fasano di New York, dove oggi guida una delle cucine italiane più raffinate degli Stati Uniti, con una filosofia basata su disciplina, eleganza e profondo rispetto per la materia prima. Lo abbiamo intervistato per il IlNewyorkese.
Partiamo dalle origini: qual è stato il percorso che ti ha portato a diventare chef? E quali sono state le esperienze formative che ti hanno segnato davvero?
Vengo da una famiglia di contadini, un mondo in cui la cucina non era un mestiere ma una necessità quotidiana. Mia nonna cucinava per tutti gli operai dell’azienda agricola: forno a legna, pane fatto in casa, arrosti enormi, tutta la famiglia riunita la domenica. È lì che è nato tutto: nella terra, nei sapori che non erano ricette, ma vita. Quando ho dovuto scegliere il percorso scolastico, la decisione è stata naturale: scuola alberghiera. Ho studiato al Bernardo Buontalentidi Firenze, e già a quindici anni lavoravo d’estate. Il primo vero impatto è stato di quelli che ti segnano: entrare in un ristorante stellato, l’Osteria del Vicario a Certaldo Alto. Lì ho capito che questo non sarebbe stato un lavoro facile, ma un mestiere totale. Le due figure chiave della mia formazione sono state Michele Targi e Daniele Sera. Da Michele ho imparato le basi, quelle solide, senza scorciatoie: tecnica, pulizia, disciplina. Daniele Sera, con cui ho aperto il Belmond Castello di Casole, mi ha invece dato raffinatezza, modernità, gestione amministrativa. È da loro due che nasce la mia cucina: classica, italiana, ma elegante, senza eccessi di modernità. Ci sono state tante tappe, ma la telefonata che mi ha cambiato la vita è arrivata dallo chef Luca Gozzani del gruppo Fasano. Da lì è iniziata una delle avventure più grandi: Rio de Janeiro.
La tua carriera ha toccato realtà diversissime: Toscana, Nord Italia, Brasile, ora New York. Rio de Janeiro sembra aver avuto un ruolo fondamentale—perché? E cosa ha significato per te viverci?
Rio è stato tutto: difficoltà, crescita, scontro con una cultura diversa e, allo stesso tempo, una grande lezione di vita. Sono partito da zero: ho mollato tutto e ho fatto armi e bagagli per trasferirmi in Brasile. E lì ho scoperto una realtà complicata. Lo staff è difficile da trovare e la ristorazione è una sfida quotidiana ma è una città geografica e umana meravigliosa. Il mare, il clima, la filosofia di vita: “no fim tudo dá certo”, alla fine tutto si sistema. Loro hanno imparato a vivere con leggerezza anche nelle difficoltà. Noi europei non lo sappiamo fare. Paradossalmente, Rio è stata la mia salvezza.
Se fossi venuto direttamente dall’Italia a New York, sarei esploso. L’esperienza brasiliana mi ha dato gli strumenti mentali per reggere la città più dura del mondo. Dopo tre anni, con dedizione e costanza, ho portato il ristorante a ingranare, ed è stato proprio quel risultato che ha convinto il gruppo a mandarmi ad aprire Fasano New York.
Oggi sei uno degli chef italiani più riconosciuti negli Stati Uniti. Quali sono i riconoscimenti a cui tieni di più?
Sono onorato di essere Alma Brand Ambassador della scuola internazionale fondata da Gualtiero Marchesi, un riconoscimento che rafforza il mio impegno nella diffusione della cultura gastronomica italiana nel mondo. Sono anche Ambasciatore del Gusto, membro di Euro-Toques Italia, e ho avuto il privilegio di collaborare in iniziative ufficiali per valorizzare la cucina italiana in sedi prestigiose come ONU e UNESCO. Questi ruoli non sono solo titoli: rappresentano strumenti concreti per promuovere la vera cucina italiana all’estero, per educare al gusto autentico e per difendere la nostra tradizione da interpretazioni distorte o americanizzate. La mia missione resta sempre la stessa: far conoscere l’Italia attraverso i suoi sapori, la sua storia e la sua eccellenza gastronomica.
In cosa senti di distinguerti davvero dagli altri chef? Quali principi non tradiresti mai in cucina?
La risposta è semplice: non mi sono mai fatto americanizzare. Negli anni in molti hanno provato a cambiarmi—nei sapori, nelle tecniche, nelle combinazioni—ma non ha mai funzionato. Conosco la terra, la fatica, le mani sporche. Vengo da una famiglia che ha lavorato davvero la terra, e da lì non mi muovo. Nel mio ristorante non entrano contaminazioni di moda che snaturano la nostra cucina. Non per disprezzo, ma perché voglio offrire qualcosa di autentico, distinguendomi da quell’italo-americano che spesso perde le radici. Fra essere interprete, innovatore o ambasciatore della tradizione, scelgo la terza opzione: ambasciatore della tradizione. Perché la mia missione è raccontare l’Italia attraverso i suoi sapori autentici, con rispetto per la storia e passione per ogni piatto che porto in tavola.
La tua storia personale è segnata da molti sacrifici. Cosa ti ha insegnato davvero questo mestiere?
Dai 15 ai 40 anni ho lavorato il doppio di un lavoratore comune: dodici, quattordici ore al giorno, sei giorni su sette. A vent’anni, mentre i miei coetanei costruivano una vita sociale e andavano all’università, io ero in cucina. Poi sono arrivate le esperienze lavorative importanti, quelle che ti segnano.
New York è la città più difficile del mondo per i rapporti umani: nessuno ha tempo, nessuno spazio. Lo stress brucia: ho visto colleghi arrendersi dopo grandi traguardi, altri cadere nell’alcol, alcuni persino togliersi la vita. Serve una forza mentale enorme per resistere.
La verità è che il vero investimento della vita è la libertà. E questa professione te la chiede ogni minuto. Ai ragazzi delle scuole alberghiere dico sempre: non è un mestiere per tutti. Serve disciplina, pazienza, resistenza. Ma soprattutto bisogna imparare a cucinare davvero, con le mani, con la testa, con il cuore—not just a saper assemblare piatti. Perché solo così si può portare la cucina italiana nel mondo, autentica e senza compromessi.
Guardando avanti: cosa sogni per il futuro? E cosa vorresti lasciare come eredità professionale?
Il mio sogno più intimo è tornare un giorno al mio oliveto di Gambassi Terme: piante che vorrei rendere finalmente produttive per creare il mio olio. Tornare alla terra, al primo amore, a ciò che ti forma davvero. C’è anche la possibilità, un giorno, di gestire il ristorante dell’hotel della famiglia di mia moglie a San Candido. Un’idea che esiste, ma ancora tutta da esplorare. E poi c’è un progetto nuovo per New York: produrre panettoni qui. Portare un prodotto italiano autentico nel cuore degli Stati Uniti, raccontando la nostra tradizione attraverso sapori veri. La mia eredità? Vorrei che i ragazzi tornassero a cucinare davvero. Non piatti da social media, ma cibo che parla di casa, di ricordi, di nonne e di infanzia. La memoria del gusto è più potente di qualunque effetto speciale: è quella che fa tornare le persone a tavola e che lascia un segno nel tempo.
L’articolo Nicola Fedeli: «La mia cucina nasce dalla terra e a New York è libertà e tradizione» proviene da IlNewyorkese.





