Cosa resta del legame con chi non c’è più: Martina Carbutti e il suo Filo Invisibile

Raccontare un lutto è già complicato; farlo trasformando i sogni, i ricordi e le coincidenze in un percorso condiviso lo è ancora di più. Un filo invisibile, il libro scritto da Martina e Marzia Carbutti, nasce così: da una serie di appunti pubblicati su Facebook che, quasi senza che se ne accorgessero, hanno iniziato a muovere qualcosa anche negli altri. Nel ripercorrere la storia del padre, la quotidianità degli anni Ottanta e quel legame che — secondo Martina — continua a manifestarsi nei sogni, il progetto da sfogo personale diventa un modo per parlare apertamente di lutto, di fede, di psicologia e di tutto ciò che accade “dopo”.

In questa conversazione Martina racconta come quei sogni si sono trasformati in un metodo per capire, cosa significa esporsi così tanto e cosa resta di un padre quando lo si rilegge dalla distanza.

Ti sei mai chiesta se quei sogni fossero un’elaborazione del lutto più che un messaggio “da fuori”? Come rispondi a chi vede tutto come un passaggio psicologico?

Sì, me lo sono chiesta. E ti dirò: ancora oggi, a distanza di quattro anni da quando papà non c’è più — e nonostante dovrebbe essere ormai “la normalità” — io sogno tantissimo. Ci sono periodi in cui non sogno e lì, lo ammetto, mi preoccupo un po’: so che può succedere che a un certo punto quei sogni svaniscano, e quando accade mi domando se forse non accadranno più. Però poi ricomincio a sognarlo. E ogni volta quel dubbio — “sarà l’inconscio?” — mi torna per un attimo, ma svanisce subito. Perché nei sogni c’è sempre un motivo, un ritorno, una connessione con la realtà: puntualmente ciò che sogno si manifesta poi nella vita. Questo, per me, è la prova che non si tratta dell’inconscio. È davvero una forma di comunicazione, anche se qualcuno può fraintendermi o non credermi. Ma è la verità più grande che ho scoperto dopo il lutto. Forse all’inizio quei sogni potevano essere un’elaborazione della perdita — ero triste, confusa — ma se fosse stato solo questo, sarebbe tutto finito lì. Invece continuo a sognarlo ancora oggi. Ne ho appuntati circa 150: li scrivo perché non sempre capisco subito il significato, e a volte lo comprendo molto dopo. Ma quando poi quello che sogno accade davvero, per me diventa chiarissimo che non è l’inconscio: è un dono, una forma di comunicazione.

Il fatto di annotare i sogni su un taccuino è tipico anche dei percorsi terapeutici. Come ti sei avvicinata a questa pratica?

In realtà non ho iniziato a scriverli per un percorso psicologico. È stato un suggerimento di mia madre: mi disse che, facendo così tanti sogni, sarebbe stato facile dimenticarli. E aveva ragione. All’inizio non annotavo nulla, poi ho iniziato. Io ero già stata in analisi, ma per motivi precedenti al lutto. Mi sono confrontata con diversi psicologi e, curiosamente, nessuno mi ha mai chiesto di annotare i sogni. Solo in un caso mi hanno fatto ripercorrere episodi dell’infanzia — cosa che serve sempre — ma niente sogni. La vera svolta è stata scrivere su Facebook: lì ho iniziato a sfogarmi parlando di mio padre, e da quella condivisione è nato Un filo invisibile. Era quasi “telepatico”: quando scrivevo, mi sembrava di ricevere messaggi, intuizioni. Ancora oggi succede, non solo quando scrivo ma anche quando parlo. Capita raramente di sentire la voce di papà nei sogni, ma quando succede è fortissimo. Di solito il messaggio arriva in modo “telepatico”, non tramite una voce udibile. Ma quelle poche volte in cui la voce è chiarissima per me è un’emozione enorme. Ora non scrivo più i sogni per elaborare il lutto, ma per capirli: capirne il significato, il perché. A volte la risposta arriva molto tempo dopo.

Il passaggio dai post al libro è significativo. Quando avete capito che quei pensieri potevano diventare qualcosa per gli altri? E vi siete mai chieste se condividere così tanto fosse “troppo”?

Non c’è stato un momento preciso. Scrivevo i post e puntualmente ricevevo messaggi privati: molti non commentavano pubblicamente, ma mi scrivevano in privato dicendo che si erano ritrovati nelle mie parole, che avevano vissuto cose simili, che avevano fatto sogni simili. Non sono certo l’unica a sognare: succede a tanti. E quel riscontro continuava ad arrivare. Poi c’erano i ricordi dell’infanzia negli anni Ottanta: gli spot della Barilla, i giocattoli, Villa Borghese, papà che ascoltava la radiolina mentre io giocavo. Tanti si ritrovavano anche in questo. Così ho pensato che quel mondo non fosse solo mio, che potesse essere utile anche ad altri. Mi sono detta: “Se ha aiutato me a elaborare, forse può aiutare anche qualcuno che legge”.

E sì, la romanità di papà ha fatto sorridere molte persone: questo mi ha convinta.

Se ci siamo mai chieste se fosse troppo? Sì, e me lo chiedo ancora oggi. Non mi sono mai pentita di aver condiviso, ma so che c’è un limite. Dopo questo secondo progetto mi fermerò, perché credo che debba esserci sempre un punto in cui si dice “ho dato tutto quello che potevo”. Il secondo progetto coinvolge altre persone che ho conosciuto lungo il percorso, persone che mi hanno sostenuta. È diverso condividere quando sei sola e diverso quando quello che racconti riguarda anche altri. Il lutto di papà mi ha aperto un percorso spirituale che non avrei mai immaginato. Non ha nulla a che vedere con la religione in senso stretto. Mi ha cambiata nel modo di vedere le cose: prima temevo il giudizio, oggi molto meno. Me lo dico sempre: “Martì, ma che te frega”. Con rispetto, certo. Rispetto chi crede e chi non crede. Per me “troppo” non è troppo se può aiutare qualcuno a vedere oltre, a fermarsi un attimo e riflettere. È un modo per dare una mano.

Nel raccontare tuo padre, hai scoperto qualcosa di lui solo scrivendo? Qualcosa che oggi vedi diversamente?

Più che scoprire, ho imparato ad apprezzare ciò che prima non apprezzavo. E lo dico sempre: io e papà abbiamo avuto scontri, eccome. Non l’ho idealizzato, anzi ho sempre riconosciuto che, seppur dal cuore generoso e buonissimo, aveva i suoi grandi difetti ma come tutti. Lui era permaloso, cocciuto, era talmente diretto a volte fino alla durezza ma quando lo faceva aveva ragione.  In casa lo chiamavamo “La streghetta” proprio per questo.Scrivendo, ho capito quanto mi manca la sua protezione. Le cose che prima mi infastidivano — “fammi uno squillo quando arrivi”, “piove, ti vengo a prendere”, “stai attenta” — oggi le vedo con occhi completamente diversi. Oggi le farei io con un figlio. Sono cose che capisci solo quando le perdi o quando diventi genitore. Io non ho figli, quindi l’ho capito solo scrivendo.

Ti è mai capitato di dubitare di questo “filo invisibile”?

Dubitare? No, non davvero. Anche perché è un continuo, e non sono cose che mi vado a cercare. Molti me lo chiedono: “Ma non è che te le cerchi?” No. Accadono da sole. E allora capisco: “Ecco perché è successo questo, ecco perché ho incontrato quella persona”.

Forse all’inizio avrei potuto dubitare, pensando fosse un modo per stare meglio dopo il lutto. Ma non è così: non cerco nulla, e tutto arriva comunque. Una mia amica mi ha detto una cosa verissima: secondo lei questo filo invisibile c’è sempre stato. Il lutto non l’ha creato, l’ha solo reso visibile. È come se prima ci fosse una tenda e ora fosse tirata via. Credo che tutti, da sempre, incontriamo persone ed esperienze legate da fili che non vediamo.

E se un lettore ti dicesse: “Io questo filo non lo sento”?

Gli direi che lo rispetto completamente. Non voglio convincere nessuno. Io racconto la mia verità, che può essere uno spunto per altri, ma non pretendo che diventi la verità di qualcun altro. Mi è capitato che qualcuno mi dicesse di non crederci. Va benissimo così. Magari la verità di quella persona è diversa e più adatta a lui. A me fa piacere credere in ciò che vivo, e mi fa piacere quando qualcuno mi dice: “Sai che pensando alle tue parole ho collegato qualcosa che è successo anche a me?”. È lì che si crea uno scambio.

L’articolo Cosa resta del legame con chi non c’è più: Martina Carbutti e il suo Filo Invisibile proviene da IlNewyorkese.

Torna in alto