Fidia, l’arte pop che fa riflettere: da Civitanova a Los Angeles, tra giochi e denuncia sociale

Nato a Civitanova Marche e oggi artista affermato a livello internazionale, Fidia Falaschetti è uno dei nomi più riconoscibili della scena artistica contemporanea pop e concettuale. Le sue opere sono un ibrido potente tra ironia visiva e critica sociale, e spaziano dal design provocatorio alle sculture iper-pop ispirate all’infanzia e alla cultura americana. Lo abbiamo incontrato nel suo laboratorio a Downtown Los Angeles, dove ci ha raccontato il dietro le quinte del suo lavoro, il successo della mostra Playdult e il lungo viaggio che lo ha portato dalla costa adriatica italiana alla capitale dell’entertainment mondiale.

Com’è nata la tua ultima mostra con Mattel?

Questa mostra nasce da una collaborazione con Mattel Creation. Andrea Ziella, amministratore delegato di Mattel Italia, mi ha contattato molto entusiasta del mio lavoro. Da lì è nata un’amicizia che ha portato alla collaborazione con Mattel International. Inizialmente doveva essere solo un’idea, ma come al solito le idee non mi mancano… e ne è uscita un’intera mostra!L’abbiamo proposta a Ethan qui a Los Angeles e si è trasformata in una collaborazione importante. Abbiamo fatto una mostra a Milano, Playdult, organizzata insieme all’agenzia italiana 4.4 e presentata da Dieci Corso Como. Playdult è un mix tra “play” e “adult”: l’adulto che torna bambino. È stato un grande successo, sia in Italia sia a Los Angeles, dove abbiamo tenuto due appuntamenti indimenticabili.

Tu vivi a Los Angeles da diversi anni. Come ci sei arrivato?

Dovevo andare in Brasile per una residenza artistica, ma prima ho fatto tappa a Los Angeles. Avevo già vissuto a Rio in passato. Poi qui ho ricevuto una proposta da una galleria francese con sede proprio a LA, che mi ha offerto la sponsorizzazione per il visto. Tornato in Italia, abbiamo presentato la richiesta per il visto da artista con talento straordinario, e grazie anche alla partecipazione alla Biennale di Venezia del 2011, è stato approvato subito.Mi sento ancora quel ragazzino di Civitanova Marche, fortunato di poter fare questo lavoro. Non mi sento una rockstar, mi tengo con i piedi per terra. Faccio spesso avanti e indietro con l’Italia, dove molte delle mie sculture vengono ancora prodotte. Mi piace dire che prendo il meglio da entrambi i mondi. Ormai sono 12 anni che vivo qui.

Come hai cominciato a fare l’artista?

Vengo da una famiglia di artisti: mio nonno ceramista e pittore, mio padre architetto e insegnante di arte, mia madre ugualmente professoressa di educazione artistica. Mi hanno chiamato Fidia, come uno dei più grandi scultori greci dell’antichità. A tre anni ero in Grecia, davanti al Partenone, e già dicevo “l’ho fatto io”!

Ho sempre disegnato, creato piccole sculture con il pongo. Mia madre le conserva ancora nel freezer… da 45 anni! È stata quasi una “condizione naturale”, non una forzatura.

Perché proprio Los Angeles?

Sono cresciuto con la cultura americana. Da piccolo sognavo New York, ma poi ho scelto Los Angeles per il clima, il surf, la passione per il cinema. Vivere qui è un po’ come stare dentro a un film. La mia arte prende ispirazione dai cartoni animati, dai loghi, dalla cultura pop americana. Ma è la mia italianità che dà quel “qualcosa in più”, credo sia proprio questo mix a generare il mio successo.

Noi italiani siamo critici per natura, ma cerco sempre di portare un messaggio positivo.

I tuoi sono giocattoli per adulti… ma con un messaggio forte.

Sì, sono oggetti per chi ha voglia di restare bambino, ma da adulti abbiamo anche la possibilità di guardare questi giochi con occhi diversi. E capire che il mondo sta andando in una direzione preoccupante.

La mia è un’arte sociale, che fa commento sociale: fa sorridere ma fa anche riflettere. Uso l’estetica accattivante della cultura pop per comunicare qualcosa di più profondo, con la speranza di spingere verso un cambiamento.

Qual è stata l’opera che ti ha dato maggiore notorietà?

Direi due: la prima è Apple Grenade, una piccola mela-granata che ho realizzato nel 2010 e che ha attirato subito molta attenzione.

Ma la svolta è arrivata con Freaky Mouse: un topo deformato, con la faccia al posto del sedere, le mani e i piedi scambiati, e il volto nascosto nei pantaloncini. È una chiara critica all’industria dell’infanzia, alla perdita dei connotati e alla manipolazione dell’immaginario collettivo.

È come se avessimo tolto la maschera a Mickey Mouse. È un modo per dire: basta maschere, mostriamoci per ciò che siamo. Anche Michelangelo usava le icone religiose per raccontare il presente: io uso quelle dell’infanzia per fare lo stesso. Erano i nostri “santi” contemporanei, e parlarne è, per me, un atto di verità.

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